Mostrando entradas con la etiqueta guerra. Mostrar todas las entradas
Mostrando entradas con la etiqueta guerra. Mostrar todas las entradas

martes, 8 de noviembre de 2011

¡¡¡ HASTA SIEMPRE ONORINA !!!



DA www.enciclopediadelledonne.it

Luigi Cesareo

Onorina Brambilla Pesce

Milano 1923 - 2011


«Avevamo tutti un nome di battaglia, io mi ero scelto Sandra; ho fatto una ricerca: mentre gli uomini partigiani si sceglievano nomi fantasiosi, Tarzan, Saetta, Lupo, la maggior parte delle ragazze avevano nomi normali...Elsa... ecco, il massimo era Katia!»[1] 
Di famiglia antifascista e comunista, abita con i genitori e la sorella Wanda in una casa di ringhiera ai Tre Furcei, quartiere operaio di Lambrate a Milano. Il padre Romeo, “specializzato” alla Bianchi, fabbrica di biciclette, rifiuta di prendere la tessera del partito fascista; ne conseguono anni di disoccupazione e miseria.
Con la guerra di aggressione all'Abissinia, nel 1935, viene però a mancare la mano d'opera ed è assunto alla Breda. La madre Maria (il suo nome di battaglia negli anni della Resistenza sarà Tatiana) insegna alle figlie Onorina e alla più piccola Wanda a dubitare della propaganda del regime; è operaia, prima alla Agretta, nota per le bibite, e poi alla Safar che produce radio: «Aveva una voce così bella che veniva chiamata a cantare per testare certi microfoni». Desidera per la figlia l'istruzione che la allontani dal duro lavoro della fabbrica.
Onorina frequenta per tre anni una scuola professionale; le piacerebbe continuare a studiare ma i genitori possono solo iscriverla a un corso trimestrale di stenodattilografia dopo il quale, a 14 anni, deve cercare un lavoro.
Viene assunta dalla Paronitti come impiegata: «Non arrivavo neanche alla scrivania e i colleghi mi chiamavano Topolino, dovevano mettermi dei cuscini sulla sedia per alzarmi».
Dal 10 giugno 1940 l'Italia è in guerra.
Onorina rimane in quella ditta 4 anni, ma viene licenziata nel 1941 a causa di un diverbio con il padrone. Trova presto un nuovo impiego in una ditta che produce binari, è incaricata di compilare un inventario, frequenta i capannoni annotando tutto, conosce gli operai, impara a individuare chi è antifascista e chi no. Comincia a studiare l'inglese al Circolo Filologico di Via Clerici: in quella biblioteca circolano ancora, incredibilmente, molti libri vietati dal regime, preziosi per la sua formazione.
La fame si fa sempre più sentire, la gente non ne può più, la guerra toglie il velo a tutte le menzogne della propaganda di regime. La caduta di Mussolini il 25 luglio 1943 coglie la gente di sorpresa, festa e disorientamento sono tutt’uno, i carri armati vengono usati per disperdere la folla. Nell'Agosto 1943 Milano viene bombardata.
La città è in fiamme, colpiti il Duomo, Palazzo Reale, il Castello Sforzesco, la Scala, Sant'Ambrogio, la Pinacoteca di Brera; a Santa Maria delle Grazie il Cenacolo di Leonardo è salvo per puro caso.
Nel rifugio affollato, una sera Onorina non riesce a trattenere la gran rabbia e, salita su un tavolo, senza curarsi dei molti fascisti presenti, grida«È ora di finirla con questa guerra!» È contenta, ha tenuto il suo primo comizio antifascista.
«Secondo me sono state le donne a dare inizio alla Resistenza... la loro partecipazione fu dovuta a motivazioni personali; a differenza di molti uomini che scelsero di andare in montagna per sottrarsi all'arruolamento nell'esercito di Salò, nessun obbligo le costringeva ad una scelta di parte; fu anche l'occasione per affermare quei diritti che non avevamo mai avuto, mai come in quei mesi ci siamo sentite pari all'uomo...»
Dopo l'Armistizio dell'8 Settembre 1943 (in effetti una resa senza condizioni), i tedeschi occupano Milano, è finita una guerra ma ne sta iniziando un'altra. I soldati dell'esercito Italiano abbandonano le divise, molti diventano partigiani; i Gruppi di Difesa della Donna (che arrivano a mobilitare, fino all’aprile ’45, almeno 24.ooo donne) si occupano di procurare loro denaro, cibo, vestiti; il compito di Onorina è distribuire la stampa clandestina. Desidera raggiungere in montagna una Brigata Garibaldi, ma la sua amica Vera (nome di battaglia di Francesca Ciceri, comunista) le presenta Visone (Giovanni Pesce) che sarà il suo Comandante e futuro marito. Lui la convince a combattere nella propria città, e Onorina a marzo 1944 lascia il lavoro. “Sandra” diventa Ufficiale di collegamento del III° ー Gap “Egisto Rubini”, equivalente al grado di sottotenente dell'Esercito Italiano, decisamente più che una staffetta. Con la sua bicicletta Bianchi color azzurro cielo[2] trasporta armi, munizioni ed esplosivo, passa spesso, con il cuore in gola, in mezzo ai rastrellamenti nazifascisti. Sono le staffette a portare le armi e a prenderle in consegna dopo un'azione per evitare che i gappisti vengano sorpresi armati e fucilati sul posto.
«C'erano le rappresaglie ma, cosa avremmo dovuto fare? Smettere la lotta? In ogni caso i nazifascisti non avrebbero cessato di fare quello che facevano. Non ho mai provato pena per chi colpivamo. La guerra non l'avevamo voluta noi. Loro ogni giorno fucilavano, deportavano, torturavano. Si dovevano vincere due cose, la pietà e la paura.»
Il 24 giugno 1944 nella “battaglia dei binari” alla stazione di Greco, un bersaglio di straordinaria importanza, Sandra è il collegamento tra i ferrovieri e i gappisti e con la compagna Narva porta i 14 ordigni che, piazzati nei forni di combustione delle locomotive scoppiano simultaneamente; l'azione dei Gap viene citata da Radio Londra.
Il 12 Settembre 1944, a 21 anni, tradita da un partigiano passato al nemico (“Arconati”, Giovanni Jannelli) viene catturata dalle SS nei pressi del Cinema Argentina, nel cuore di Milano. Inizia la prigionia, la sofferenza, il distacco dalla famiglia, la tortura e la violenza fisica subita dalle SS nella Casa del Balilla di Monza, trasformata in carcere.
In attesa dell'interrogatorio cerca di farsi coraggio. Ai gappisti arrestati il Comando chiede di resistere 24 o 48 ore per permettere ai compagni di mettersi in salvo. L'interrogatorio è terribile, vogliono che lei consegni Visone, ore e ore di percosse, torture. Non parla, nessuno dei suoi compagni è compromesso.
Rimane in isolamento totale nel carcere di Monza due mesi, giornate lunghe e vuote, non può comunicare con l'esterno o ricevere notizie. È trasferita a San Vittore per soli due giorni e, l'11 novembre 1944, caricata, con altri prigionieri, su un pullman senza conoscere la destinazione.
Viene imprigionata a Bolzano in un campo di transito. Ancora oggi non si spiega perché le 500 prigioniere politiche che lì si trovavano non furono mai deportate in Germania, diversamente dalle altre 2700 donne che dall’Italia raggiungeranno i campi di concentramento. Mantiene contatti epistolari con la madre, la rassicura sul suo stato fisico e psicologico, riesce persino a scherzare: «se non fosse perché abbiamo sempre fame sembrerebbe una villeggiatura...» Lavora dapprima alla sartoria del campo, in un ambiente stretto e soffocante ma poi riesce a farsi assegnare ai lavori esterni. I tedeschi, prima di fuggire, le rilasciano persino un documento che attesta la prigionia e grazie al quale riuscirà in seguito a dimostrare la sua deportazione.
Milano era stata liberata dei Partigiani e dall'insurrezione popolare il 25 aprile. Onorina decide di non attendere l'arrivo degli americani; con alcuni compagni, sotto la neve, si inerpica sul passo della Mendola, attraversa la Val di Non e il Tonale; si fermano la notte presso i contadini ai quali chiedono cibo e riparo, sono d'aiuto i posti di ristoro dei partigiani delle Fiamme Verdi. Finalmente un pullman fornito dai comuni della zona fino a Ponte di Legno, li porta da lì a Lovere; poi in treno fino a Milano, Stazione Centrale: era il 7 maggio 1945. Con un'assurda “normalità” arriva a Lambrate, a casa, con il tram n. 7. Dalla finestra, vicina a Wanda, guarda emozionata la manifestazione dei Partigiani, rivede Visone, corre in strada, si abbracciano. Nori (come la chiamerà il marito) e Giovanni Pesce, finalmente liberi, si sposano il 14 luglio 1945, non possiedono niente, solo gioia per la ritrovata libertà e speranza per una nuova vita.
Si trasferiscono per un breve periodo a Roma, dopo l'attentato del 1948 a Togliatti, Giovanni guida la Commissione di Vigilanza, a protezione dei maggiori dirigenti del Pci. Nori trova impiego nella segreteria di Pietro Secchia, commissario politico delle Divisioni Garibaldi.
Tornata a Milano lavora alla Federazione del Pci e nella Commissione Femminile della Camera del Lavoro. Successivamente entra a far parte del Comitato Centrale Fiom metalmeccanici, dirige i lavori sindacali, organizza convegni, incontri e scioperi in difesa del posto di lavoro.
Nel 1951 Giovanni Pesce lascia il partito e trova lavoro come rappresentante di caffè; riescono a comprare casa, nasce la figlia Tiziana, non ne avranno altri, «un po' per le ristrettezze economiche e un po' perché eravamo talmente impegnati a fare i rivoluzionari di professione da non avere il tempo utile per essere genitori. Una sera Tiziana ancora bambina mi disse a bruciapelo: io ti ho conosciuto a 8 anni, mamma!»
Nel tempo il commercio di Giovanni si sviluppa e Onorina, per seguirne la parte amministrativa, lascia la sua attività politico-sindacale ma continua ad essere, per 8 anni segretaria nella sezione Pci di Via Don Bosco. Il 27 gennaio 1962 le viene assegnata la Croce di guerra per la sua attività di partigiana.
Nel 1969 Nori e Giovanni aprono un locale di liquori e vini, il Bistrot in Via Zecca Vecchia, dura solo due anni ma è una parentesi felice. Lì si ritrovano scrittori, pittori, studenti, operai. La sera, chiuso il locale, vanno in sezione a fare attività per il Pci e per il Sindacato.
Nori Brambilla Pesce è stata Responsabile della Commissione femminile dell'ANPI, Presidente dell'Associazione ex perseguitati politici italiani antifascisti per la sede di Milano e Presidente onorario A.I.C.V.A.S., l'Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti di Spagna.
«Si vuole falsificare la Resistenza, lo chiamano revisionismo ma spesso è falsificazione della storia. Noi siamo stati impegnati per tutta la vita per difendere la libertà, oggi ho 87 anni, non ho rimorsi, ho un rimpianto ma non voglio parlarne. Quando cala il sole chiudo le persiane perché non amo il buio della notte...»
Onorina ci ha lasciato il 6 Novembre 2011.

NOTE

1. Le citazioni sono tratte da Onorina Brambilla Pesce, Il pane bianco, conversazione con Roberto Farina prefazione Franco Giannantoni, Varese, Edizioni Arterigere, 2010 o da interviste video presenti in rete.
2. Vedi la scheda del libro La bicicletta nella resistenza di Franco Giannantoni e Ibio Paolucci.
Torna su
Fonti, risorse bibliografiche, siti
Onorina Brambilla Pesce, Il pane bianco, Varese, Edizioni Arterigere, 2010
Giovanni Pesce, Senza tregua, Milano, Feltrinelli 1967
Marco Pozzi, Senza tregua, Film-documentario, 2003
Su YouTube:

Luigi Cesareo

Luigi Cesareo (1953) scrive raramente. Si interessa di Spagna e del mondo che ruota intorno alla Corrida e alla tauromachia, dal quale è rimasto folgorato una mattina di luglio, a Ronda. Ha scritto alcuni racconti su questi temi. Altri incontri decisivi: Totò, Achille Campanile, Eduardo, Van Morrison. Suona il basso elettrico e ha due bambini.
Leggi tutte le voci scritte da Luigi Cesareo

martes, 12 de julio de 2011

GUERRA DI LIBERAZIONE NON CIVILE!



Nel centenario del Viminale gaffe sulla Resistenza

L'occupazione tedesca tra il '43 e il '45 chiamato "guerra civile"
Riprendiamo da Repubblica.it 
"Di questo Palazzo si è detto e scritto di tutto: ma il Viminale non è il palazzo dei poteri, degli intrighi e dei complotti". Così Maroni alla cerimonia dei cent'anni della sede del ministero dell'Interno celebratasi alla presenza del capo dello Stato, Giorgio Napolitano. Oggi però il Viminale è stata la sede dove s'è consumato un clamoroso strafalcione storico. Il filmato istituzionale sul centenario ha chiamato "guerra civile" il periodo dell'Occupazione tedesca dell'Italia fra il '43 e il '45. Errore voluto per presentare la Resistenza in chiave revisionistica o involontaria gaffe degli autori? Non è dato sapere: questo è uno dei tanti misteri del Viminale. Così come non si sa a quale causa attribuire la clamorosa svista sempre dello stesso video, che ha omesso (o censurato) i sei anni di repressione antidemocratica di Mario Scelba, fra il 2 febbraio 1947 al 7 luglio 1953. In ogni caso, il filmato non è più disponibile sul sito del Viminale, come era stato annunciato.

L'errore storico ha suscitato sdegno e proteste nel mondo politico e dei Partigiani. "È stata un guerra di Liberazione - ha commentato dal letto dell'ospedale Armando Cossutta, ex partigiano e vicepresidente dell'Anpi - dire che è stata una guerra civile è sbagliato".
"Ancora una volta - ha aggiunto il presidente dell'Anpi - Carlo Smuraglia- s'è parlato di "guerra civile"a proposito della Resistenza che è una delle pagine più gloriose della storia italiana e non deve essere assolutamente deformata cercando di ridurne la portata di ridurla a guerra civile. È stata guerra di Liberazione per liberare l'Italia dalla dittatura fascista e dall'Occupazione tedesca. Appena 5 giorni fa sono stati dati 9 ergastoli ai nazisti autori degli eccidi negli Appennini tosco-emiliani, la prova che i nemici da combattere, che sterminavano la popolazione civile inerme, erano i tedeschi. Che poi alleati coi tedeschi ci fossero anche i fascisti che hanno voluto combattere fino alla fine con loro non muta il carattere fondamentale della guerra di Liberazione. Sorprende che dopo tanti anni di distanza, da una sede autorevole e istituzionale come il Viminale e davanti al presidente della Repubblica, esca ancora il tentativo di ridurre una pagina  meravigliosa della storia del Paese a una lotta fratricida".

"Chiamare guerra civile la lotta di liberazione che sconfisse in Italia i fascisti e i nazisti - ha commentato Emanuele Fiano, responsabile Pd del forum sicurezza - è un atto di barbarie storica che riporta indietro l'orologio della nostra cultura comune. Non ci fu nessuna guerra civile, ma la maggioranza del Paese si ribellò e ci liberò dalla nostra dittatura prima ancora che dall'Occupazione straniera. Le ricostruzioni storiche che vengono promosse dal ministero dell'Interno dovrebbero salvaguardare questa visione storica che è quella su cui si fonda la democrazia repubblicana nella quale viviamo oggi".

viernes, 3 de junio de 2011

Guerra civile o guerra di liberazione? Dal punto di vista del Diritto. Giorgio Tosi

D

i cosa parliamo se parliamo di guerra civile? Un giomale autorevole e serio come Repubblica ha dedicato all’argomento un lungo articolo che inizia in prima pagina, prosegue su quelle della cultura e annuncia addirittura una seconda puntata. Ciò significa che l’argomento è importante, specie in questo momento in cui più aspro è lo scontro sul terreno culturale fra revisionisti e non, tra coloro che vogliono epurare i libri di testo, ristabilire la censura almeno a scuola, e legittimare il fascismo anche nei suoi aspetti più nefandi, e coloro invece che si oppongono in nome della verità storica. E’ tuttavia sorprendente che dopo una polemica che è durata cinquant’anni (guerra civile sì, guerra civile no), non sia stato sufficiente il bel libro di Claudio Pavone a chiarire i veri termini della questione. Viene maliziosamente da pensare che molti commentatori abbiano letto solo il titolo.
Pavone dimostra come la Resistenza sia stata un intreccio fra tre guerre: "patriottica, civile e di classe" (p. XI). Nei capitoli dedicati alla guerra civile (da lui stesso indicata come una definizione controversa) chiarisce che con il termine usato intende non occultare"la parte di realtà che vide italiani combattere contro italiani" (p. 225). Una guerra fratricida, dunque. Non vi è dubbio che la Resistenza fu anche questo, e Pavone lo ha messo in luce con serietà e rigore. Ciò che è sbagliato e strumentale è ridurre il periodo ‘43-45 soltanto a guerra civile perché tende a nascondere il discrimine tra fascismo e antifascismo, tra lotta per la libertà e difesa della dittatura, e sottrae lo scontro al contesto storico e al suo contenuto essenziale: l’esistenza di una parte giusta e di una ingiusta. Le armi prima e la Costituzione poi hanno deciso una volta per tutte la vittoria della democrazia e la sconfitta del fascismo. Fra le opposte posizioni di Salò e della Resistenza non c’è conciliazione possibile. Ciò è vero non solo sul piano teorico ma anche su quello fattuale. Coloro che nella definizione di ‘guerra civile’ vogliono assorbire tutto il significato della Resistenza dimenticano il dato giuridico e politico che impedisce lo stravolgimento da essi voluto.
I
l concetto di guerra civile è stato studiato dal diritto penale e ha trovato la sua formulazione normativa nell’art. 286 del codice Rocco, allora e oggi vigente. Si tratta di un delitto contro la personalità interna dello Stato, e si verifica quando due fazioni armate di cittadini si combattono tra loro (per un qualunque motivo) nel territorio dello Stato, compromettendone l’ordine costituzionale. Per essere più chiari, la nozione giuridica di ‘guerra civile’ riguarda due o più fazioni private che intendono risolvere con le armi le loro controversie, senza ricorrere ai poteri dello Stato che è estraneo alla contesa.
Commenta il Manzini, notissimo penalista: "Guerra civile è una lotta armata entro il territorio dello Stato di una parte della popolazione contro un’altra parte", non dunque contro lo StatoLa situazione creatasi nell’Italia centrosettentrionale dopo l’8 settembre 1943 era del tutto diversa dalla fattispecie prevista dalla norma. La Repubblica sociale italiana non era al disopra delle parti, ma era essa stessa parte in causa e come tale ricercava, rastrellava, combatteva, uccideva i partigiani come nemici. Per farlo si serviva delle forze armate repubblichine, guardia nazionale, brigate nere, decima mas: diretta espressione e strumento dello Stato fascista.
La posizione dei partigiani rispetto allo Stato fascista, rappresentato dalla repubblichina di Salò, era eversiva e insurrezionale. E’ chiaro dunque, almeno da un punto di vista giuridico, che i combattenti non erano sullo stesso piano (come invece lo sono in una guerra civile), perché i fascisti si battevano in nome dello Stato repubblichino, mentre i partigiani combattevano contro.
Sul piano del diritto la norma applicabile era quella prevista dall’art.284, cioè il "delitto di insurrezione armata contro i poteri dello Stato". Per questo reato infatti, e non per quello di guerra civile, furono processati e condannati i partigiani catturati durante il periodo ‘43-45. E’ quanto accadde al prof. Ettore Gallo, poi divenuto Presidente della Corte Costituzionale: arrestato dalla banda Carità, fu processato e condannato a morte dal Tribunale militare fascista di Piove di Sacco con l’accusa di"insurrezione armata contro i poteri dello Stato" e non con quella di "guerra civile".
Dal punto di vista del diritto internazionale si arriva a una conclusione convergente. Poiché dopo l’8 settembre il legittimo Stato italiano (quello monarchico del sud) aveva dichiarato guerra alla Germania ed era stato riconosciuto "cobelligerante"dagli alleati, i partigiani erano vere e proprie forze armate in territorio occupato dal nemico (tedeschi e fascisti repubblichini). Se ne deve necessariamente dedurre che la Resistenza fu un aspetto di una guerra internazionale fra Stati
Quando si parla di guerra civile, bisognerebbe aver ben presenti questi concetti al fine di evitare confusioni. I revisionisti che riducono la Resistenza a mera guerra civile contraddicono i fatti, le sentenze dei tribunali. militari fascisti e le norme del codice Rocco, che fu il padre della legislazione mussoliniana

In Italia ci fu Guerra Civile?

Antonio Tabucchi: "La repubblica di Salò, nata dopo l'8 settembre 1943 (data dell'armistizio chiesto dall'Italia agli Alleati) fu uno stato fantoccio creato dai nazisti nel nord d'Italia, più o meno nelle stesse zone che oggi sono in mano al partito separatista della Lega; e l'idea che questo staterello artificiale, roccaforte del nazi-fascismo, tendesse all'unità d'Italia corrisponde al dire che la repubblica di Vichy aspirava all'unità di Francia. Che poi i repubblichini, scherani e servi dei nazisti, autori di massacri, torturatori e aguzzini,con simboli di morte ben espliciti sull'uniforme, credessero di avere servito «l'onore della Patria», è una dichiarazione che involgarisce l'idea di patria e il concetto di onore".